Musicista, cantautore, regista. Federico Zampaglione è uno, nessuno e centomila. Raccontando il suo passato e con uno sguardo sul presente, l’intervista al regista di ‘ The Well’.
«La gente deve portare avanti le proprie passioni, soprattutto se sono vere e profonde. Ho imparato che non devi ascoltare nessuno quando fai le cose, perché la gente ti vuole portare altrove».
Sentimento e sentimento sono il mantra di Federico Zampaglione. Potrebbe essere uno dei personaggi dei suoi film; il tono della sua voce è un graffio sulla pelle, le sue parole sono calme. Misurato, si sbilancia poco all’inizio della nostra conversazione telefonica. Parte una domanda, s’inabissa e dopo un breve tempo di attesa arriva la risposta. Cita il cinema di un tempo ed Edgar Allan Poe, unisce sacro e profano. Una carriera lunghissima fatta di tanta musica e cinema. Indaffarattismo, tra la presentazione del suo ultimo film, The Well, che sta riscuotendo un successo incredibile, e la ventata d’aria fresca del tour estivo con il suo gruppo, i Tiromancino. Insegue l’emozione, e cerca di raccontarsi sempre in modo sincero.
«Se ti devo accarezzare con una canzone voglio che quel brano ti dia un’emozione reale e che diventi parte della tua vita. L’intrattenimento leggero di qualsiasi genere non mi è mai interessato», mi ripete. E pensando a quanto è stato difficile fare uscire il suo ultimo film, ammette: «Fare il regista indipendente è bello ma piuttosto scomodo».
Federico, dica la verità: si aspettava che The Well avesse tutto questo successo?
No, assolutamente. Il risultato del box office è stato sorprendente, considerando che la distribuzione è nata a metà giugno e abbiamo fatto un po’ tutto da soli. La data che abbiamo trovato disponibile era la peggiore possibile, perché nel mese di agosto il numero delle sale cinematografiche è molto limitato e, come se non bastasse, hanno vietato la visione ai minori di diciotto anni. Un divieto davvero pesante se uno considera che l’horror è un genere amato soprattutto dai più giovani. Ma nonostante tutto il film ha funzionato e sta girando per il mondo.
É stato proiettato in Vietnam, entrando in classifica tra i film più visti e a breve arriverà anche in America. La cosa che mi ha soddisfatto di più è che questo film ha creato un vero e proprio dibattito: c’è chi lo ha amato e chi lo ha odiato, e questa cosa per un artista è veramente importante.
The Well è una storia a doppio binario. Com’è nata l’idea?
L’idea è nata da una cosa che mi ha sempre inquietato: il pozzo. Quando ero ragazzino ho seguito la storia di Alfredino, il bambino che cadde dentro il pozzo nel 1981. Ne parlavano tutti, si pensava davvero che il bambino potesse salvarsi, ma non fu così. Anche il fratello di un mio amico venne ritrovato dentro un pozzo; per cui l’ho sempre considerato come qualcosa di malvagio, di cupo. Profondo, sia per quello che può caderci dentro ma anche per quello che può venirne fuori dal fondo. Da qui è nato tutto. Si è creato questo parallelismo tra il pozzo e il dipinto, e abbiamo tirato fuori una storia che in effetti si muove su due livelli, passando da un piano all’altro.
É una struttura verticale: più si va verso il basso più l’inquietudine, l’orrore e la paura aumentano di intensità e assumono contorni sempre più infernali. Ci sono i sotterranei, il pozzo, il carceriere; quindi è concepito come se fosse una sorta di inferno per cui più vai giù e più gli orrori e l’orrore aumentano. E bisogna anche capire chi sono i veri cattivi. Questo è uno dei messaggi del film, perché poi alla fine il protagonista è sempre lo stesso: l’uomo.
In The Well c’è un omaggio al vecchio cinema, o sbaglio?
Sì. Mi piace prendere elementi in libertà, cose che possono appartenere al passato, e accostarli a qualcosa di moderno. Ho preso una struttura gotica e l’ho sporcata tirando secchiate di sangue e mettendo tutta una serie di immagini che non appartengono propriamente a quel mondo. Ho riproposto l’aspetto più marcio, più sporco.
Ma cosa la affascina del cinema horror?
L’horror è un’espressione libera, c’è una sospensione della logica, è un genere che ti permette di andare al di là degli aspetti più conseguenziali di una narrazione. Amo definirlo come una sorta di incubo i cui contorni si confondono e si trasformano in qualcosa di cupo e indefinito. Non deve essere necessariamente spiegabile o logico, ma ti deve avvolgere e trasportare nell’oscurità, in quella dimensione che è a metà tra sogno e realtà.
Quando è nata questa passione?
É nata da ragazzino. Sono andato insieme a mio padre nella giostra del tunnel degli orrori e mi sono trovato di fronte questi personaggi e mostri inquietanti. Era la prima volta che vedevo qualcosa di simile, ero sconvolto. Quella esperienza così spaventosa mi ha fatto appassionare a questo genere. Ricordo ancora la sensazione di paura che ho provato uscendo da lì. É stato tutto troppo intenso ed è stato allora che mi sono avvicinato a questo mondo. Quando vedevo i manifesti dei film horror, cominciavo a chiedere alle persone più grandi come fosse il film, dato che non potevo vederlo al cinema perchè ero minorenne, come nel caso di Profondo Rosso, un film che sconvolse tutta l’Italia diventando poi un cult. Per molto tempo mi sono dedicato alla musica, accantonando questa passione che, poi, è venuta a cercarmi in maniera prepotente.
Cosa è successo?
É cambiato tutto durante le riprese del mio primo film, Nero Bifamiliare. Ho girato un paio di scene thriller e lì mi sono reso conto di quanto fossi predisposto verso quel tipo di cinema, mi sentivo guidato da una sorta di eccitazione così forte che, finito quel lungometraggio, ne volevo subito girare un altro. Ma considerando la fatica enorme e il lungo lavoro che si fa tra scrittura, riprese e post-produzione, mi son detto che se dovevo rientrare un’altra volta in quel processo creativo, doveva essere per un film horror. Così, insieme a Giacomo Gionzini, scrissi la sceneggiatura di Shadow, un film che inizialmente non voleva finanziare nessuno perché produrre film horror in Italia è molto difficile. Alla fine siamo riusciti a metterlo in piedi e lì ho avuto la conferma che quella era la mia strada.
Federico Zampaglione: una vita divisa tra musica e film
Da Shadow a Tulpa, fino ad arrivare a The Well. Che evoluzione c’è stata nel suo modo di raccontare e girare i film?
Shadow si rifaceva un po’ agli anni ‘70 e inizio ‘80, quindi ho seguito le logiche di quel tipo di cinema. Tulpa, invece, era un vero e proprio omaggio al giallo italiano. Le mani con i guanti, le belle donne, le scene un po’ erotiche, le musiche coinvolgenti e gli omicidi sopra le righe. Fare un omaggio è qualcosa che alla fine ti lascia sempre un po’ insoddisfatto. Per poterlo realizzare ero entrato in un processo creativo che mi costringeva a fare tutta una serie di cose che in realtà non mi rappresentavano fino in fondo. Probabilmente ero entrato in un’ottica di revival, non stavo più raccontando la storia horror a modo mio. Alla fine mi sono preso una pausa dal cinema ritornando al mio primo amore, la musica.
Lei è quello delle canzoni Per me è importante, Due Destini, Amore Impossibile. Quanto è stato rischioso passare dalle canzoni romantiche dei Tiromancino ai film horror?
Con la musica ho sempre messo in mostra il mio lato romantico, ben diverso da quello che invece si ritrova nei miei film. E questo sicuramente può generare confusione, soprattutto tra i fan che sono abituati alla versione di Zampaglione cantante. Ho rischiato di creare una scollatura, ho corso un vero e proprio rischio. Mi ricordo che durante una delle presentazioni di Shadow, una fan del Tiromancino finita la proiezione, cominciò ad insultarmi pubblicamente dicendomi che non avrebbe mai più ascoltato la mia musica perché era rimasta molto delusa. In realtà ho fatto una scelta e ho seguito questa passione rischiando, anche tanto. Persino i miei amici mi suggerirono di desistere, ma io sono sempre andato dritto per la mia strada.
Ma com’è Federico Zampaglione sul set?
Quando lavoro mi piace creare un’interazione, sia nella musica che nel cinema. Mi piace ascoltare le idee e le proposte degli attori, anche perché è un percorso lungo e bisogna creare e plasmare i personaggi. Ad esempio Lorenzo Renzi, che nel film interpreta il carceriere, ha preso quasi trenta chili proprio per rendere il personaggio più credibile. L’idea di renderlo muto, di dargli quella specie di aria assente che ti fa pensare che possa fare di tutto, è arrivata piano piano. Ed è qualcosa che disturba lo spettatore. E poi tutti quei versi, quei tic, quelle cose che lui fa, è stato tutto un lavoro studiato insieme. Ha cercato di imitare la figura del maiale che vive di scarti, mangiando quello che gli danno.»
Nel film recita anche sua figlia, Linda Zampaglione. Com’è stato lavorare con lei?
Mia figlia è una ragazza molto sveglia. Sul set abbiamo cercato di mantenere i rapporti professionali perché altrimenti diventava difficile lavorare. Ritornavamo alla nostra quotidianità solo a riprese finite. Devo dire che lei ha avuto anche qualche bella intuizione durante le riprese, per esempio nella scena in cui gira intorno alla protagonista simulando un cerchio magico. Ecco, quella è stata una sua idea.
Mi racconta un aneddoto divertente sul set?
Un aneddoto simpatico è legato alla protagonista Lauren La Vera. Avevo visto Terrifier, il film in cui lei è protagonista e mi era piaciuta così tanto la sua interpretazione che sono andato sul suo profilo Instagram e le scritto un messaggio per farle i complimenti. A un certo punto ho trovato una sua risposta, in italiano. Mi scriveva che suo marito era un mio grande fan musicale. Da lì è nata una corrispondenza e quando le ho detto che stavo facendo un film, le ho mandato la sceneggiatura di The Well e, alla fine, abbiamo girato insieme. Il set è stato veramente pieno di cose assurde. C’era Stefano Martinelli, l’attore che faceva il mostro Guron, che a volte doveva fare quattro-cinque ore di trucco restando immobile. E ogni volta che entravo nella sala trucco per sostenerlo, era lui che alla fine tranquillizzava me.
Regista, musicista, cantante, scrittore. Che cosa le manca?
Ho fatto tutto quello che mi è venuto in mente di fare, non mi sono mai tirato indietro anche affrontando dei rischi. Adesso, evito i progetti a lungo raggio perché la vita va un po’ dove vuole, quindi cerco di essere pronto ad accogliere le cose che arrivano senza pianificarle. Con gli anni capisci che il controllo sul futuro è l’ultima cosa che puoi avere, per cui quello che puoi fare è cercare di vivere appieno quello che ti viene concesso ogni giorno, evitando di concentrarti sul risultato finale.
© Intervista pubblicata su Taxi Drivers del 30 agosto 2024