Si cimenta con il film “Parigi può attendere” dopo essere stata per anni apprezzata documentarista e assistente del marito, dice: « Lo seguivo sempre per tenere unita la famiglia. »
Il cinema, si sa, non ha età. Lo ha dimostrato Eleonoar Coppola che, dopo aver girato una lunga serie di documentari molto apprezzati dalla critica, a 81 anni, ha voluto dirigere il suo primo film, Parigi può attendere, presentato al Biografilm Festival di Bologna, e affermandosi così definitivamente come la terza regista della famiglia Coppola. Eleanor, infatti, è la moglie di Francis Ford Coppola, celebre regista del Padrino e Apocalypse Now, nonché madre di Roman, a sua volta regista e produttore, e della pluripremiata Sofia, prima donna statunitense e terza in assoluto ad avere ottenuto una candidatura all’Oscar come miglior regista per il film Lost in Translation e a vincere, nel 2010, alla Mostra del Cinema di Venezia, il Leone d’oro con il suo film “Somewhere”.
Quindi, c’è poco da stupirsi se, a ottantuno anni compiuti, capelli bianchi corti e occhi vivaci, Eleanor abbia voluto dirigere il suo primo lungometraggio. Del resto la sua vita è stata quasi tutta spesa sui set cinematografici: ha partecipato infatti alla realizzazione di molti film del marito, e ne ha raccontato i retroscena in documentari da lei firmati. «Osservare, documentare e prendere appunti è la mia attività più creativa insieme a quella di moglie, compagna, madre e amica» ha spiegato Eleanor.
Eleanor ha incontrato quello che poi è diventato suo marito, Francis Ford Coppola, sul set del suo primo film Dementia 13, in cui lei era assistente del direttore artistico. Era il 1963. Da allora la donna è diventata una presenza fissa nella vita del regista. «All’inizio, da tipico italiano, non voleva che lavorassi, il mio compito era badare alla famiglia» racconta. «Quando ci siamo sposati, io e Francis abbiamo cominciato ad avere subito figli. Ci siamo guardati intorno e abbiamo visto che le famiglie dello spettacolo non sopravvivevano a lungo. E abbiamo fatto un accordo: se uno di noi fosse stato via più di due settimane, tutta la famiglia l’avrebbe seguito. Arrivammo sul sete e Francis era tutto eccitato, mentre io seguivo i figli a scuola o facevo la spesa e cucinavo. E’ stato un periodo complicato, perché lui nutriva il suo spirito, io no. Con lui tutto è grandioso, io invece sono molto più silenziosa e intima. Ma appartengo alla generazione in cui il ruolo della moglie è quello di sostenere il marito nella sua carriera».
Poi Coppola ha capito che la moglie poteva essere un’ottima collaboratrice, e così sul set di Apocalypse now Eleanor filma oltre 16 ore di backstage e realizza Viaggio all’inferno, il suo primo documentario che le vale un Emmy. «E dire che», confida lei «nonostante la mia famiglia non sono una grande cinefila. Quello che mi colpisce di un film è soprattutto la parte visiva».
Un amore lunghissimo quello con Francis Ford, fatto di gioie e dolori, tra cui la tragica scomparsa, nel 1986, del loro primogenito Gian Carlo, a causa di un incidente.
La pagina più sofferta del loro lungo cammino insieme.
E ora Eleanor, abbandonati i panni di moglie che gode di luce riflessa, si è ritagliata un ruolo di primo piano diventando così la più anziana debuttante alla regia. Il film, di cui la signora Coppola è non solo regista ma anche sceneggiatrice, è interpretato da Diane Lane e Alec Baldwin, e ha un sapore autobiografico. Parigi può attendere racconta la storia di Anne, (Diane Lane) moglie sempre al seguito del marito celebre ed egoista (Alec Baldwin), che affronta da sola un lungo viaggio in macchina, tra campagne francesi e soste gastronomiche, alla volta di Parigi, insieme all’amico produttore. Quello dell’autobiografismo è una componente ricorrente nei lavori di Eleanor Coppola: il film prende spunto proprio da una storia realmente accadutale, dove Alec Baldwin veste i panni di Francis Ford. Una pellicola fresca e sincera che tocca l’apice nel racconto, in chiesa, del figlio morto giovane e mai dimenticato.
Angela Failla
© Art. pubblicato su Visto n.27 – 6 luglio 2017, pp. 76/78