«Tredici anni fa avevo un sogno: allenare la Nazionale. Quel sogno è stato distrutto da una brutta vicenda di cronaca che mi ha visto uscire innocente. Tutto è svanito all’improvviso: contratti, soldi, amicizie. E tutto per un incontro e un foglietto».
Comincia così l’incubo di Beppe Signori.
Una vicenda lunga dieci anni, dal 1 giugno 2011 al 1 giugno 2021, che si conclude con l’assoluzione. Un uomo che possedeva doti straordinarie: centottantotto gol in serie A, tre volte capocannoniere nella stessa serie e vicecampione del mondo con la nazionale italiana nel 1994, sbattuto sulle prime pagine della cronaca per calcioscommesse. Esposto alla gogna e disposto a rinunciare alla prescrizione pur di dimostrare la sua innocenza. Una vicenda basata su un’ipotesi, dai contorni poco chiari, la caduta di un eroe che lascia un sapore amaro in bocca.
Lei è balzato alle cronache per una brutta vicenda legata al calcio scommesse. Andiamo per ordine, cosa è successo il 15 marzo 2011?
«Sono andato a un incontro che ha fatto nascere un’ipotesi investigativa su un mio possibile coinvolgimento in una rete legata alle scommesse nel mondo del calcio. Mi sono ritrovato con due personaggi, già sotto il riflettore delle forze dell’ordine, e mi è stata fatta una proposta economica, proponendomi di investire in delle gare truccate. Ventimila euro per convincere dei giocatori a commettere qualcosa di illegale. Ho subito rifiuto. Io che do soldi a colleghi della serie A per corromperli, ma ti pare possibile? Per tagliare corto e andarmene via al più presto, ho trascritto su un foglio le condizioni che dettavano. Quel “papello”, come è stato ribattezzato poi, è stato ritrovato dai poliziotti a casa mia durante la perquisizione del 1 giugno. In un attimo sono diventato organizzatore, promotore, finanziatore di tutte le operazioni di calcioscommesse. Il boss dei boss, in pratica.»
E cosa accadde il 1 giugno 2011?
«Ero in treno, squillò il telefono. Era mia sorella, mi chiedeva, con la voce rotta, in che carcere mi trovassi. Non capivo di cosa stesse parlando. Di lì a poco scoprii su Internet che sarei stato arrestato per calcio scommesse. L’incredulità divenne rabbia, facevo fatica a capire come potessi essere coinvolto in una situazione di quel tipo. Mi piace scommettere e non l’ho mai tenuto nascosto perché ho sempre giocato lealmente, ma mai avrei immaginato che all’arrivo a Bologna avrei trovato gli agenti, giunti lì per arrestarmi.»
E poi gli arresti domiciliari, arrivati qualche giorno dopo. Cosa ricorda di quel giorno?
«Ricordo poco, quasi nulla, solo la costante sensazione di stare in apnea. Mi sentivo una belva in gabbia che non riusciva nemmeno a ruggire. Gli arresti domiciliari non sono esattamente come la reclusione, ma di fatto vieni privato di tutte le cose a te più care, come avere contatti con i tuoi familiari o essere liberi di fare una passeggiata all’aria aperta. E non ho mai capito il perché di questa decisione: se sono il capo dei capi, come mi hanno dipinto, perché mi concedono i domiciliari?»
Come lei stesso racconta nel libro autobiografico “Fuorigioco: perde solo chi si arrende”, questo processo è stato pieno di elementi e vicende piuttosto strane.
«Ho riscontrato tantissime cose non lineari. A partire dal mio interrogatorio davanti al GIP. Alle sue domande ho risposto esponendo i fatti e, dopo pochi minuti, il Pubblico Ministero lì presente si allontanava sostenendo l’inutilità di quell’interrogatorio. E tutto perché la mia dichiarazione non collimava con la sua. Fu quella l’unica volta in cui fui ascoltato, nonostante le successive e ripetute richieste da parte dei miei avvocati. Dopo qualche giorno lo stesso giudice mi ha revocato gli arresti domiciliari ma la mia carriera, la mia vita, erano già state distrutte. E poi i controlli sui tabulati telefonici. Nessuno se l’è chiesto, ma su una quantità enorme di intercettazioni, possibile che non ne sia mai stata trovata una che mi riguardasse? Se ero il capo dei capi, perché non sono mai stato intercettato?»
Lei ha rinunciato alla prescrizione per di dimostrare la sua innocenza. Una scelta coraggiosa.
«Art. 530 c.p.p. comma 1. Mi piace sottolinearlo, perché i comma nel diritto italiano sono fondamentali. “Assolto perché il fatto non sussiste”, ovvero, non c’è la minima prova che abbia commesso quel reato. Sono sempre stato innocente. Per questo ho rinunciato al patteggiamento e alla prescrizione. L’ho fatto per Tina, mia moglie, e per i miei figli, glielo dovevo. Ci vuole una forza immensa, lo ammetto. Ma non potevo sopportare di vivere da colpevole. Dovevo farmi giustizia e riabilitare il mio nome per loro e per mia moglie Tina, che è stata fondamentale In tutta questa vicenda.»
Se non si fosse chiamato Beppe Signori questo sarebbe accaduto?
«Assolutamente no, ne sono certo. Ero il personaggio perfetto per questa storia: capitano di una squadra di serie A, giocatore della Nazionale italiana, famoso in tutto il mondo e a cui piace scommettere. Cosa vuoi di più?»
Dieci lunghi anni per dimostrare la sua innocenza. Qual è stato il prezzo da pagare?
«Elevatissimo. Mediaset ha cancellato la mia collaborazione. La Federcalcio mi ha inflitto cinque anni di squalifica con preclusione da qualsiasi categoria o rango, e la mia carriera da allenatore, di fatto, non è mai iniziata. Un bagno di sangue, e non è retorica. E oggi, ufficialmente innocente, non posso nemmeno chiedere il risarcimento dei danni che ho subito. Per farlo bisognerebbe dimostrare la malafede dei giudici.»
Che sapore ha per lei, oggi, la parola libertà?
«Ha un sapore speciale, è il gol più bello della mia vita, ho ritrovato il sorriso e la gioia dei miei figli. Mai e poi mai avrei accettato di rimanere nel grigiore di una prescrizione.»
Come è riuscito a non farsi risucchiare dal buco nero dell’autodistruzione davanti a una vicenda del genere?
«Tre anni fa mi è partito un embolo, ho rischiato di morire. E’ stato causato anche da tutto lo stress a cui sono stato sottoposto in questi anni. Ho fatto un grande lavoro su me stesso, perché quando non vedi una via d’uscita, il rischio di cedere alla depressione e a tutto quello che ne segue è altissimo. Se non hai punti di riferimento e gente che ti vuole bene sul serio, rischi di farti del male e di farla finita.»
Lei ha chiesto scusa a tutti: a sua moglie, ai suoi figli e ai tifosi per qualcosa che non ha commesso. Ma a lei qualcuno ha chiesto scusa?
«Poche persone. Ma, nonostante tutto, mi ritengo un uomo fortunato perché nella mia vita ho sempre assecondato le mie passioni e ho costruito una famiglia che amo. Cosa spero per il mio futuro? Di essere finalmente chiamato ad allenare».
Angela Failla
© Intervista pubblicata su Diva e Donna n.45 – 14 novembre 2023 pag. 56/59